Nell’immane tragedia della ritirata
di Russia (gennaio 1943) quando le nostre truppe, in un disegno
delirante del governo di allora, vennero inviate a conquistare
quell’immenso paese in supporto a tedeschi, ungheresi, rumeni,
ecc., Giulio Bedeschi in un passaggio in cui narra il ‘ripiegamento’
degli invasori inseguiti dalle truppe sovietiche, nel suo libro
‘Centomila gavette di ghiaccio, scrive: « La
visibilità divenne nulla, come ciechi i marciatori continuarono a
camminare affondando fino al ginocchio, piangendo, bestemmiando, con
estrema fatica avanzando di trecento metri in mezz'ora. Come ad ogni
notte ciascuno credeva di morire di sfinimento sulla neve, qualcuno
veramente s'abbatteva e veniva ingoiato dalla mostruosa nemica, ma la
colonna proseguì nel nero cuore della notte. ». In una serie
infinita di pubblicazioni, testimonianze, ricordi colpisce l’incedere
disperato dei soldati che lottano per lasciare il paese invaso,
contrastati dal fuoco nemico, dal gelo implacabile (40° gradi
sottozero), mal vestiti, affamati, mezzo addormentati, con una
stanchezza infinita, un passo dietro l’altro come automi col
desiderio sempre più forte di lasciarsi andare sulla neve e dormire…
dormire per sempre come tantissimi hanno fatto.
In questa catastrofe umana ben 74.800 giovani saldati italiani, fra morti e dispersi, non fecero più ritorno al loro paese, alle loro famiglie, alle loro case. Nella sola nostra provincia di Massa e nella sola divisione alpina Cuneense ben 537 alpini sono scomparsi in quella assurda sciagura: morti o dispersi. Disperso. Parola tragica e evanescente che non dice nulla e dice tutto. Per 70 anni questa parola ha continuato a bussare alla porta del cuore come un chiodo che non ti da pace. Da bambino la mamma cerca di fare a me a mio fratello e a lei stessa coraggio e rassicura che certamente tornerà come qualcuno ogni tanto veramente tornava. Poi la scuola, le domande ‘Il padre ce l’hai? che mestiere fa?’ - ma.. veramente.. non so.. è disperso! - E cosa vuol dire disperso.. è morto? - No! - E allora?’ Imbarazzo e quasi vergogna. Poi il tempo passa, il tempo, come si dice, guarisce ma da quel desiderio di capire e di vedere i luoghi e magari portare un fiore e una preghiera dove è sepolto no, la guarigione non è mai avvenuta. E cosi capita un’occasione insperata. Per caso vengo a conoscenza che un alpino di Verona, Renato Buselli, artigliere alpino, ottimo organizzatore con esperienza di altri viaggi, sta progettando un pellegrinaggio a piedi che partendo dalla zona del fiume Don ripercorre le piste che hanno fatto i nostri alpini in quella terra sconfinata fino a raggiungere il luogo dell’ultima disperata battaglia che ha rotto la tenaglia messa in atto dai Russi: Nikolajiewka (ora Liwenka) per un percorso di quasi 200 km. Contatti, documenti, questura, passaporto, visto, allenamenti. Nel cuore di una notte di agosto mi ritrovo all’aeroporto di Malpensa con altri 5 alpini pronti a salire su un aereo per Vienna e poi un altro per Mosca insieme a un gruppo di veronesi trovati in quello scalo. All’aeroporto, 50/60 km da Mosca, ci attende un pullman e una guida ci porta ad una delle nove stazioni ferroviarie della capitale: la troviamo caotica, malandata e cadente. Finalmente, dopo ore, saliamo su un treno cuccette che ci porterà, durante la notte e una parte della mattina, a Rossocsh, 840 km distante. Qui è la nostra base: una cittadina di circa 60.000 abitanti che si sta modernizzando con fatica e già sede del comando del Corpo d’Armata Alpino in quella guerra. Nel pomeriggio ci ritroviamo sulla sponda del fiume Don, nel settore dove era schierata la Cuneense mentre al di la del fiume erano attestati i Russi. Emozione grande e profonda: questa terra è stata calpestata dai nostri alpini vivendo nelle tane scavate da loro, per oltre quattro mesi. Il sacerdote don Gioacchino celebra la santa Messa sopra un altare fatto di zaini. Siamo tutti emozionati e consapevoli dell’unicità del momento che stiamo vivendo. Questa celebrazione irripetibile e straordinaria con vessilli, gagliardetti, bandiera Russa e Italiana sul greto del Don, rimarrà impressa nei nostri cuori per sempre.
In questa catastrofe umana ben 74.800 giovani saldati italiani, fra morti e dispersi, non fecero più ritorno al loro paese, alle loro famiglie, alle loro case. Nella sola nostra provincia di Massa e nella sola divisione alpina Cuneense ben 537 alpini sono scomparsi in quella assurda sciagura: morti o dispersi. Disperso. Parola tragica e evanescente che non dice nulla e dice tutto. Per 70 anni questa parola ha continuato a bussare alla porta del cuore come un chiodo che non ti da pace. Da bambino la mamma cerca di fare a me a mio fratello e a lei stessa coraggio e rassicura che certamente tornerà come qualcuno ogni tanto veramente tornava. Poi la scuola, le domande ‘Il padre ce l’hai? che mestiere fa?’ - ma.. veramente.. non so.. è disperso! - E cosa vuol dire disperso.. è morto? - No! - E allora?’ Imbarazzo e quasi vergogna. Poi il tempo passa, il tempo, come si dice, guarisce ma da quel desiderio di capire e di vedere i luoghi e magari portare un fiore e una preghiera dove è sepolto no, la guarigione non è mai avvenuta. E cosi capita un’occasione insperata. Per caso vengo a conoscenza che un alpino di Verona, Renato Buselli, artigliere alpino, ottimo organizzatore con esperienza di altri viaggi, sta progettando un pellegrinaggio a piedi che partendo dalla zona del fiume Don ripercorre le piste che hanno fatto i nostri alpini in quella terra sconfinata fino a raggiungere il luogo dell’ultima disperata battaglia che ha rotto la tenaglia messa in atto dai Russi: Nikolajiewka (ora Liwenka) per un percorso di quasi 200 km. Contatti, documenti, questura, passaporto, visto, allenamenti. Nel cuore di una notte di agosto mi ritrovo all’aeroporto di Malpensa con altri 5 alpini pronti a salire su un aereo per Vienna e poi un altro per Mosca insieme a un gruppo di veronesi trovati in quello scalo. All’aeroporto, 50/60 km da Mosca, ci attende un pullman e una guida ci porta ad una delle nove stazioni ferroviarie della capitale: la troviamo caotica, malandata e cadente. Finalmente, dopo ore, saliamo su un treno cuccette che ci porterà, durante la notte e una parte della mattina, a Rossocsh, 840 km distante. Qui è la nostra base: una cittadina di circa 60.000 abitanti che si sta modernizzando con fatica e già sede del comando del Corpo d’Armata Alpino in quella guerra. Nel pomeriggio ci ritroviamo sulla sponda del fiume Don, nel settore dove era schierata la Cuneense mentre al di la del fiume erano attestati i Russi. Emozione grande e profonda: questa terra è stata calpestata dai nostri alpini vivendo nelle tane scavate da loro, per oltre quattro mesi. Il sacerdote don Gioacchino celebra la santa Messa sopra un altare fatto di zaini. Siamo tutti emozionati e consapevoli dell’unicità del momento che stiamo vivendo. Questa celebrazione irripetibile e straordinaria con vessilli, gagliardetti, bandiera Russa e Italiana sul greto del Don, rimarrà impressa nei nostri cuori per sempre.
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| Santa Messa sul fiume Don |
Il giorno dopo si
parte per il pellegrinaggio a piedi: previsti 30 Km. Zaino in spalla
con molta acqua (è una giornata caldissima), viveri, qualche
indumento. Podgornoje – Opyt – Postojaly – Seljakino –
Varvarovka – Romachovo – Arnautovo, nomi grandiosi da epopea ma
scopriamo che queste località, per lo più, si rilevano dei piccoli
villaggi di isbe malandate col recinto dell’orto e, poco distante,
l’immancabile cimitero protetto da un labile steccato dove quasi
ogni tomba ha un piccolo tavolo con una panca. Si cammina su strade
asfaltate, ma per lo più, su piste sterrate in mezzo a estensioni
immense di girasoli, di granoturco, di grano già mietuto, di soia,
di praterie incolte. Al di fuori dei
villaggi nessuna presenza umana. La terra è nera e
straordinariamente fertile e non esistono impianti di irrigazione.
Niente montagne, niente colline solo distese verdi grandiose con
lunghi avvallamenti (balke) da percorrere in leggera discesa e
quindi risalire con un po' più di fatica.
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| In cammino verso Nikolajewka |
La guida racconta che questo cammino
era costellato di soldati morti sulla neve per gli stenti, il
ghiaccio, la neve, la fame, gli attacchi dei soldati russi e che
solo col disgelo di primavera fu possibile seppellirli li dove si
trovavano salvo quelli che erano caduti nelle tre o quattro battaglie
vere e proprie seppelliti in fosse comuni vicino ai loro cimiteri se
erano italiani, altrimenti bruciati se erano di altre nazioni. E
allora la cosa più bella e sentita è di frugare nelle tasche,
prendere il rosario e pregare lungo questo immenso cimitero: Ave
Maria…. L’eterno riposo… da solo e con altri e così per
giorni e giorni: cammina, cammina, l’eterno riposo… è come
gettare delle rose invisibili sopra quelle tombe vere… l’eterno
riposo…Ultima tappa e finalmente Nikolajiewka.
Qui la tenaglia da spezzare: 60.000 disperati sono attestati
nella parte superiore della valletta che sovrasta la ferrovia:“Tridentina
avanti!" è il grido con il quale il generale Reverberi,
comandante della divisione, riesce a trascinare i suoi alpini e i
disperati ammucchiati sul colle nel disperato assalto alle posizioni
nemiche di Nikolajewka travolgendo l'ultima barriera di ferro, di
fuoco micidiale, di mitragliatrici e gelo che si frapponeva alla
marcia più spedita verso la salvezza. La manovra riesce e la massa
dei disperati passa attraverso lo stretto sottopasso della ferrovia. Anche
noi siamo giunti al sottopasso con due corone per rendere onore ai
caduti, circa 6.000.
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| Il sottopasso |
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| Fossa comune a Nikolajewka |
Settembre
2012
- Edamo Barbieri





